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Sabato 2 luglio 2016.

Caldo mostruoso. La temperatura era già fastidiosa quando io e Pol (il bassista dei Madyon) partimmo la mattina presto da Cuneo ma arrivati a Torino il clima diventò insopportabile.

Quel giorno, per la prima volta, avremmo registrato al di fuori del nostro studio le sessioni di LOHMA, il canale YouTube che avevamo aperto per valorizzare altre realtà sommerse del panorama indipendente, sulla base dell’esperienza dei Madyon.

Avevamo affittato i locali di un circolo nel mezzo del quartiere San Salvario e il calendario della giornata era al completo con quattro sessioni di registrazione per altrettante band da registrare. Ci saremmo fermati soltanto un’oretta a pranzo.

E fu proprio poco prima di pranzo che ricevemmo una telefonata.

“Ciao, mi chiamo Silvia Harrison, mi hanno detto che oggi registrate le sessioni per il canale YouTube LOHMA. Mi trovo qui a Torino con la band Safehaus di Glastonbury che vorrebbe registrare un paio di brani, sono molto bravi…”

Ovviamente l’unico spazio libero era l’ora di pranzo e la mia fiducia nel prossimo scarseggia ormai da anni.

“Immagino che per allestire il set e registrare serva molto tempo ma loro ottimizzerebbero facendo una sola take, buona la prima, fidatevi: sono davvero bravi”

Incuriosito accettai.

Ben, Jim, Robin e Paul collegarono i loro strumenti sapendo di avere una sola take a disposizione. Un cenno di intesa e “two, three, four”.

Il brano si intitolava “Leave It All” e, una volta finito, io e Pol ci guardammo non riuscendo a togliere dalle nostre facce quel sorrisino isterico di chi è allo stesso tempo incredulo, stupito, felice e impressionato. Un brano stupendo, un’esecuzione emozionante e travolgente.

 

Non potevo immaginare che da quel momento in avanti sarebbero cambiate così tante cose nella mia vita. Soltanto un mese dopo sarei stato con quella band nello studio dei Madyon per registrare e produrre il loro primo EP. E poi tanti concerti, tanti palchi condivisi e tanti momenti di spensieratezza passati a ridere, parlare di progetti futuri e sogni. Talvolta in Italia, talvolta in UK.

La vita però è stronza, lo sappiamo tutti, o quasi. Se mi incontrate in giro e vi va di parlarne io ci sto, chiunque voi siate.

Esattamente due anni fa, oggi, ci è stato strappato uno dei più bravi songwriter che io abbia mai conosciuto, il mio amico Ben Kench, due giorni dopo aver suonato sullo stesso palco con lui a Glastonbury. Non posso dire di essere stato un suo amico “storico” ma in un anno abbiamo condiviso tanto ed abbiamo vissuto insieme emozioni viscerali, di quelle che lasciano il segno. Veramente.
Ho imparato tanto da lui, ascoltando e analizzando le sue canzoni, i suoi testi. Tutte cose che oggi applico inconsciamente nei nuovi brani dei Madyon. Brani che custodisco sul mio telefono e che pian piano pubblicheremo, quando sarà il momento.

Oggi voglio ricordare Ben con quello che da tutti i Madyon e i Safehaus è stato decretato come il momento più bello vissuto insieme. Non si tratta di un evento pubblico ma dell’after show improvvisato tra di noi in una camera di hotel dopo aver suonato insieme all’Harvest Music Festival. Un ricordo di un valore inestimabile che durerà per sempre.

Live forever.

 

La realtà che conoscevi, completamente distrutta. In un istante.

E tu sei lì, totalmente anestetizzato, come se fossi in una bolla isolata acusticamente ed emozionalmente dal resto del mondo. Le mani che tremano ed il cuore che batte a mille. E poi quella devastante condizione d’impotenza. Freddo.
A un certo punto arrivi a un totale distacco dalla realtà. Se qualcuno ti fa una domanda riesci a rispondere ma se non ricevi un input dall’esterno… non pensi a niente. Ti fischiano le orecchie. Il vuoto.

Tremi.

Passano le ore e lentamente, telefonata dopo telefonata, torni al tuo ruolo, nei panni del personaggio che la gente vuole che interpreti. Ripeti parole, interlocutore dopo interlocutore, fino a quando le parole stesse perdono di significato. Diventa una filastrocca che alla fine reciti con gli occhi asciutti e la voce relativamente ferma.
A un certo punto ti chiudi e cerchi di riprendere contatto con la realtà rimanendo con le poche persone che pensi stiano provando sensazioni simili alle tue.

Dopo due giorni, l’immagine della macchina che si allontana: lo spettacolo è finito. La folla di Via Roma si ritira in pochi minuti e tu capisci che da quel momento nulla sarà più come prima. Lo sconforto. Sei rimasto solo. Ti volti e vedi un gruppo di ragazzi che fino a quel momento ha guardato a te come a un punto di riferimento… ma questa volta è diverso. Non hai risposte da dare, non hai soluzioni né proposte. Non puoi far altro che piangere.

Le ore volano e finiscono le celebrazioni per le strade come sui social, la gente torna alla quotidianità. Chi non riesce ancora a staccarsi da quel pensiero prova a trovare un rifugio concentrandosi sul proprio lavoro.

Ed è in questa fase che io avrei voluto poter fare lo stesso.

Pensare al nostro lavoro non ha fatto altro che affondarmi in uno sconforto ancora più grande perché la nostra attività lavorativa, da qualche mese, si chiamava “Madyon”. Avevamo deciso di fare il passo per diventare professionisti e per questo ci eravamo strutturati. Era tutto previsto dal programma che ho studiato anni fa e che abbiamo sempre seguito durante il nostro percorso, raggiungendo obiettivo dopo obiettivo.

L’uscita del nuovo disco seguita dal tour italiano dei Madyon: io e Paolo eravamo già pronti per tutto. Avevamo appena finito di ristrutturare la formazione che da quest’estate sarebbe partita per portare la nostra musica in giro per l’Italia.

Già, perché nelle ultime settimane è stata fatta un po’ di confusione dai giornali ed è bene fare chiarezza per evitare di fraintendere un weekend di divertimento tra amici con il profilo professionale di Paolo.

Paolo Papini era un artista ineguagliabile, persona di intelligenza superiore, di rara cultura e sensibilità, di raffinata eleganza, classe ed educazione, un grandissimo insegnante, geniale compositore, un professionista di livello internazionale. Con il massimo rispetto verso qualsiasi professione, com’è bene precisare che Paolo Papini non fosse un poliziotto, un elettricista o un medico, è bene precisare come non c’entrasse assolutamente nulla con “concerti per matrimoni e feste di piazza”. Quella era una sorta di vacanza con amici musicisti che non vedeva da tempo. Una delle cose più belle e genuine che possano esserci. Ma non confondiamo le cose.

Paolo Papini veniva con me a Londra a fare i dischi agli Abbey Road Studios.
Paolo Papini era un insegnante.

Sempre al mio fianco, in ogni decisione. Mi voltavo a destra e c’era lui. Il suo sorriso, la sua solidità. La capacità di dire sempre la cosa giusta. Quanto l’ho invidiato. Sempre politicamente corretto e pacifico, anche quando si parlava di persone che gli avevano fatto degli sgambetti. Il suo entusiasmo per qualsiasi novità, quell’entusiasmo che prendevamo in giro facendogli il verso.

“Ma è bellissimo!” o ancora “Ma è stupendo!”

Poi però arrivava il momento di scrivere le canzoni e a quel punto non si scherzava più. Faccia a faccia, in studio con le nostre chitarre. Io, lui e un iPhone per registrare le idee. Ho il cellulare pieno di materiale, così tanto da poterci fare un altro EP.

In questi giorni ho pensato tanto, galleggiando nello sconforto.

Una sera della scorsa settimana sono stato ripescato alla deriva da un amico. Una persona che mi ha ricordato quanto fosse grande la soddisfazione di Paolo per il lavoro svolto sul nuovo disco, durante gli ultimi giorni a Londra. C’è sempre stato molto di lui nella musica dei Madyon ma in questo disco più che mai.
Durante le sessioni di arrangiamento, quando ci trovavamo testa a testa, uno dei concetti che facevamo emergere più spesso era l’importanza di trovare la nota giusta al momento giusto. Non una di più, magari una di meno. Era importante che ogni singola nota avesse un grande impatto sulla canzone, cadendo in modo solenne. Era quella nota lì e non doveva essercene un’altra che potesse suonare meglio in quel posto. Lui era un maestro in questa cosa.

Lui era Il Maestro Paolo Papini.

Oggi quelle note suonano ancora più solenni. Solo da pochi giorni riesco ad ascoltare nuovamente la nostra musica. Per guardare i video invece servirà ancora del tempo.

In questi giorni c’è stato un ricordo in particolare che ha avuto la meglio sugli altri. Era la notte del 31 agosto 2015 e ci trovavamo a una festa di paese, cenando per le strade di un luogo non lontano da Cuneo. Finita la cena mi accompagnò alla macchina e rimanemmo a parlare fino a notte fonda. Tra i vari discorsi legati agli sviluppi dei Madyon, mi disse di quanto lo gratificasse professionalmente il progetto. Mi disse che si fidava di me.

Quella notte gli feci una promessa.

Ora però non è facile. È una situazione davvero delicata ed io, in questo momento, non so nemmeno come comportarmi quando cammino per le strade della mia città. Se penso a tutto ciò che abbiamo già realizzato insieme nei mesi scorsi per portare avanti i nostri sogni… ho il computer pieno di filmati di Paolo, non ancora pubblicati, legati al nuovo disco… e non oso neanche pensare al momento in cui dovremo metterli su Final Cut per lavorarli.

Mi è stato anche detto che il tempo aiuterà a prendere maggiore confidenza con questa situazione. Io non credo mi ci abituerò mai. In caso di dubbi sul da farsi mi è stato consigliato di stamparmi nel cervello la domanda

“Lui cosa ti direbbe di fare?”

Sappiamo tutti quale sarebbe la sua risposta ed io credo che a ripartirò proprio da qui, da ciò che vorrebbe lui. Questo è stato l’unico concetto solido in queste due settimane di devastazione. Qualcuno ci vedrà della strumentalizzazione, ne sono certo… ma non mi importa. In questa situazione l’unica cosa che conta per me è far vedere e sentire chi era Paolo Papini. Insieme a me e agli altri ragazzi ha investito e lavorato molto a questo disco, era una delle cose a cui più teneva e sarebbe una mancanza di rispetto buttare via tutto.

Nei giorni scorsi qualcuno mi ha detto che se prima aveva dei dubbi sul proseguire o meno con questo progetto, questa tragedia gli ha tolto definitivamente lo spirito per andare avanti. Beh io la penso esattamente all’opposto: se prima avevo mille motivazioni per portare avanti questa cosa, ora ne ho una in più.

Ho fatto una promessa a una persona e ho intenzione di mantenerla.

 

Paolo Papini, il nostro amico, il maestro, la chitarra dei Madyon, per sempre.

Mi ricordo che stavamo passeggiando per Shaftesbury Avenue. Eravamo un gruppo di persone abbastanza numeroso, tutti i Madyon più qualche amico, alla disperata ricerca di un locale dove poter cenare.

C’era euforia nell’aria, un po’ perché eravamo finalmente tutti insieme a fare una serata a Londra, un po’ perché quel pomeriggio, agli Abbey Road Studios, avevamo quasi ultimato “Roll The Shadows”, il nuovo EP dei Madyon.
Era venerdì 13 novembre 2015 e, quella sera, a partire dalle ore 21:00, tutti i locali hanno cominciato a chiedere i documenti di riconoscimento all’ingresso. Anche da McDonald’s.

Eravamo a Londra per celebrare la nostra più grande passione: la musica. Quella notte però la musica è diventata una vittima, come tutte le persone che hanno perso la vita o quella di un proprio caro al Bataclan.

Purtroppo una delle dinamiche più naturali del comportamento umano è quella di sensibilizzarsi nei confronti di un problema solamente quando questo si propone nelle vicinanze della propria quotidianità. Questo è il motivo per cui nel nostro paese si sono vissute meno le stragi avvenute in paesi lontani. I giornali ne hanno parlato molto. La risonanza di una notizia però non dipende mai dal volume mediatico ma da quanto la stessa riesca a radicarsi nei discorsi da bar.

Quella notte, cercando di trovare una risposta ad un banalissimo “perché?” ho capito che in fin dei conti non aveva importanza. Le ragioni di una fazione politica piuttosto che di un’altra (che non sa scindere tra “religione” e “politica”) non giustificherà mai il sangue versato dagli innocenti. In Francia come in Kenya come in Syria. E in tutti quei posti dove le luci dei missili, sotto un cielo stellato, ti crollano in testa.

Sono convinto che di fronte a queste realtà non bastino più il supporto morale o il like sul banner di sensibilizzazione su Facebook. I problemi concreti che si combattono soltanto con delle azioni altrettanto concrete.

I Madyon non sono gli U2 ma nel nostro piccolo avevamo un disco pronto per essere pubblicato e l’abbiamo messo da parte. Ho scritto “Your Love Is Not Enough” il lunedì successivo e in una settimana l’abbiamo registrata. Senza chiedere il permesso o la benedizione di qualcuno, con l’aiuto di PayPal abbiamo deciso di devolvere il 100% dei ricavati del brano ad UNICEF, un’associazione che da sempre tutela i diritti delle vere vittime di conflitti di questo tipo, di chi non ha scelto di vivere in quelle condizioni: i bambini.

Oggi alle 18:00 esce il video ufficiale di “Your Love Is Not Enough”, il nuovo singolo dei Madyon. Una canzone che fin dal titolo ha l’ambizione di comunicare, con musica e parole, i concetti e gli stati d’animo che ho espresso nelle righe precedenti.

Potrei raccontare di una noiosissima fase di naming, caratterizzata dalla selezione di consonanti “morbide” e dalla ricerca di una parola che non fosse ancora indicizzata sui motori di ricerca in modo da ottenere fin da subito il miglior posizionamento possibile sul web. Potrei raccontare di come il risultato dovesse essere in linea con determinate caratteristiche, legate alla lunghezza della parola o all’univoca pronunciabilità in tutte le lingue del mondo. Potrei raccontarvi tutto questo.

Oppure potrei raccontarvi di una notte in cui, come tutte le notti, ero a letto con il portatile aperto sulla faccia, intento a ricercare… cose su internet. Nel dettaglio stavo visitando il sito internet di un illustratore, tale Ryan Woodward. Non avevo digitato il suo nome per arrivare al suo sito, c’ero arrivato da un sito che raccoglieva i migliori Doodle di sempre. Ebbene da quella lunga lista il mio preferito risultò (e risulta tutt’ora) essere il Doodle realizzato per celebrare la vita della coreografa Martha Graham, a quanto pare leggendaria maestra di danza moderna che ha vissuto per quasi tutta la durata del XX secolo. Risalendo alla fonte scoprii che quel gran pezzo di Doodle portava la firma di Ryan Woodward. Da qui arrivai al suo sito.

Rimasi rapito da una sua opera in particolare, un video realizzato con lo stile grafico del Doodle. Il titolo del video era (ed è) “Thought Of You” e cominciai a guardarlo in loop, un po’ perché la canzone di sottofondo era bellissima, un po’ perché il video stesso era bellissimo… e soprattutto non riuscivo a dargli la giusta interpretazione.

Stiamo parlando di un passo a due dove i protagonisti bucano lo schermo a colpi di movimenti sinuosi e marziali allo stesso tempo. Lei continua ad apparire, accompagnare il partner per qualche istante per poi svanire e ricomparire qualche fotogramma più tardi. Guardatelo.

 

Dopo un po’ riuscii a formulare la mia personalissima interpretazione.

Mi piace vederla così. Comincia un giorno come tanti, in cui lui è molto innamorato di lei. Lei è perfetta ai suoi occhi e la insegue ogni volta che lei compare… e costantemente si schianta al suolo ogni volta che lei svanisce. Il tratto grafico con cui sono disegnati però li differenzia: lui ha una figura completa, solida, fatta di luci ed ombre; lei ha un tratto sottilissimo, accennato, senza ombre, quasi come se fosse soltanto un’idea. Questo equilibrio però a un certo punto cambia, a partire da 1:45, quando lui, steso e totalmente affranto a causa dell’ultima scomparsa della “pacchinara” che continua a concedergli soltanto pochi istanti di attenzione per volta, si rialza in una condizione assolutamente anomala. E’ al limite, non riesce quasi a sollevarsi, la sua ombra e la sua frustrazione diventano un peso immenso da gestire. Con un estremo gesto di forza se ne libera e si addormenta perché la notte è finalmente sopraggiunta. Al suo risveglio le sue zone d’ombra sono svanite, i tratti di leggerezza lo rendono simile alla sua amata. Dopo un paio di inseguimenti finiti come sempre, finalmente i due si incontrano in un lento abbraccio che regala alla ragazza una forma concreta, fatta di luci ed ombre. In questo momento lui capisce che era innamorato dell’idea che aveva della donna e non della vera sostanza. Così, quando finalmente lei è concreta e pronta per lui… lui se ne va, tristemente confuso, lasciando lei sola, per la prima volta al suolo.

WOW.

Quella sera mi addormentai esaltato dalla genialità del video che avevo appena visto per 20 volte. Il mattino seguente mi svegliai e nella testa avevo ancora la canzone dei The Weepies dal titolo “The World Spins Madly On”, usata come colonna sonora del video. Ebbene si, continuavo a canticchiarmi nella testa “…and the world spins MADLY ON”. Da quel momento la fase di naming per la band durò ancora un minuto circa.

E chissà che l’altra storia, quella accennata all’inizio di questo post, non si sviluppò proprio in quel minuto esatto.

Buonanotte 🙂